A volte mi capita di sognarla. È raro ma capita. 

Il tempo non ha intaccato il suo aspetto, io invecchio, ho i capelli bianchi, la pancia, le rughe, ma lei è sempre la stessa.

Ci eravamo conosciuti a Parigi, in un locale. Io ero un baldo giovanotto alla ricerca di sé stesso, pieno di dubbi e domande, lei era una sofisticata e affascinante cantante jazz. 

Minuta nell’aspetto quasi da sembrare fragile e indifesa, ma una volta spente le luci tirava fuori tutta la sua grinta sul palco. La sua voce era ammaliante, unica. Poche note e si restava rapiti per sempre. Le sue movenze erano particolari, suadenti, calde come la sua voce e ci si chiedeva se fosse veramente lei a cantare, una voce soul “nera” e potente.

Rimasi più di due ore a fissarla fumando una sigaretta dietro l’altra. 

Finita l’esibizione i tecnici sistemarono il palco per la prossima band in scaletta.

Lei come se niente fosse si diresse al bancone del bar. 

Il suo sorriso bianchissimo contrastava col nero assoluto dei suoi lunghi capelli, ogni volta che rideva illuminava i volti della gente. Non potevo fare altro che ammirarla. 

Prese un long drink con cannuccia. Rimase qualche minuto a scherzare col barman, ogni tanto guardava nella mia direzione, pochi istanti in cui i suoi occhi rapivano la mia mente, quegli attimi mi resero dipendente, ne volevo ancora. Fumavo nervosamente, speravo non si accorgesse della mia infatuazione adolescenziale, finché non si alzò e, bicchiere alla mano e sigaretta tra le labbra, si diresse verso di me.

Più si avvicinava e più il cuore mi saliva in gola. Posò il suo drink al mio tavolo , sbuffò una nuvola di fumo alzando la testa verso il soffitto e tornata sulla terra mi chiese « Piaciuto lo spettacolo?»

Intento a rimettere il cuore al suo posto con la speranza che non se ne accorgesse risposi goffamente« Certo che si! » e senza chiedere altro si sedette con me al tavolo.

Non ci eravamo mai visti prima ma mi sembrava di conoscerla da sempre, ogni tanto lei beveva un sorso e si teneva un cubetto di ghiaccio in bocca che faceva roteare facendo smorfie buffe. Passammo tutta la sera a parlare e a bere.

Non ci accorgemmo nemmeno di essere rimasti gli unici frequentatori del locale, era quasi l’alba e il proprietario ci invitò a lasciare il tavolo.

Continuammo le nostre infinite chiacchiere e risate lungo la riva della Senna, fino al sorgere del sole quando ci scambiammo un lungo bacio.

Fu così che iniziò tra noi due, dopo quel bacio ce ne furono molti altri. 

Ben presto le nostre frequentazioni divennero assidue fino a formare una coppia fissa. 

Avevamo un piccolo appartamento in affitto nel cuore di Parigi, ognuno di noi manteneva i suoi impegni, lei provava con la band e continuava a esibirsi negli stessi locali, io restavo in cerca della mia identità consapevole di aver trovato la mia anima gemella. Facevo lavoretti saltuari, e per un periodo ho lavorato come cameriere nello stesso locale dove ci siamo conosciuti.

Così un giorno dopo l’altro gli anni passavano, tra alti e bassi, routine e scoperte.

Lei non sfondò mai nel mondo della musica, aveva pubblicato un paio d’album ma non era riuscita a raggiungere la notorietà che ti consente di vivere di musica e di avere una certa tranquillità economica. 

Io , invece, continuavo a cambiare lavoro perché per mia natura dopo pochi mesi la noia mi mangiava l’anima.

Nonostante tutto il nostro rapporto andava avanti, eravamo felici come coppia , non pensavamo al futuro, vivevamo il momento, il presente, senza farci domande, godendo della compagnia di noi stessi.

Un giorno come un altro mi chiese se potessi accompagnarla dal dottore, aveva fatto degli esami a seguito di qualche lieve malessere intestinale, si sentiva nervosa e mi voleva al suo fianco.

Era autunno e Parigi appariva sbiadita, tinta di marrone chiaro e il freddo cominciava a farsi insistente, ti penetrava le ossa piano piano.

L’ambulatorio si trovava in un’ anonima palazzina bianco panna.

La saletta d’attesa era piccola, una manciata di sedie alle pareti, un tavolinetto basso al centro colmo di riviste e giornali, da Vanity Fair a Le Figaro.

Ci sedemmo accanto, io provavo a sfogliare qualcosa, lei si mordeva il labbro e si martoriava le mani.

Il medico sbucò dalla porta facendomi saltare in aria. « Signorina Amy, prego si accomodi.» Lei scattò sugli attenti e mi prese per un braccio, abbozzò un sorriso sfuggente e mi trascinò dentro con sé .

Dopo averci fatto accomodare il dottore prese posto sulla sedia difronte a noi. Consultò la cartella medica con aria seria, poi dopo averla chiusa e poggiata sul tavolo ci rivolse lo sguardo.

Ricordo le ginocchia molli e una forte pressione sulla fronte, la vista che si annebbiò per qualche istante.

Amy restò pietrificata. Quella sentenza di morte non ce l’aspettavamo.

« Dottore ma è sicuro che non c’è niente da fare?» chiesi disperato cercando di mantenere un minimo di compostezza.

« Purtroppo no, l’intestino è completamente compromesso e le metastasi continuano a riprodursi invadendo tutto il corpo ad un ritmo vertiginoso. Sei mesi, forse dieci. Mi dispiace. Si può provare qualche terapia per contrastare e rallentare l’avanzata ma oltre all’essere un blando tentativo è una terapia molto dolorosa e devastante per la paziente.»

Amy non si era mossa, era rimasta sgomenta, in assoluto silenzio, la sua mano ferma sulla mia coscia come a voler restare aggrappata alla poca vita che le restava. 

Tornammo a casa ognuno avvolto nel suo dolore, per tutto il tragitto non ci guardammo mai negli occhi.

Ci sedemmo sul divano e lì restammo abbracciati senza nemmeno mangiare.

Avvinghiati l’uno all’altra, senza parole, non riuscivo a dirle niente, non sapevo cosa dire. 

Fu la notte più lunga della mia vita, Amy ad un certo punto crollò in un sonno profondo e finalmente riuscii a piangere.

L’autunno volò via seguito da un inverno freddo e nevoso. Provammo a riconquistare una normalità che ormai non esisteva più, uscivamo quasi ogni sera, andavamo a teatro, al cinema, al ristorante , consapevoli della spada di Damocle che pendeva sulle nostre teste. 

Prima dell’arrivo della primavera Amy si aggravò, era molto debole, non riusciva quasi a stare in piedi.

Finì i suoi giorni poco dopo l’ingresso dell’estate. Fu una cosa straziante per entrambi, lei cercava di consolarmi e fu la cosa che mi fece più male in assoluto.

Dopo la sua morte rimasi meno di un mese in quella casa, da solo.

Restavo sveglio quasi 24 ore al giorno cercando di captare qualcosa, un segnale della sua presenza. 

Ricordo la collera per non riuscire a sfruttare il mio dono e quanto lo maledissi in quelle notti fredde d’estate.

La invocai, toccai i suoi abiti, il suo cuscino, ma niente, mai una scintilla, una visione.

Sconfitto e lacerato lasciai Parigi, la città che mi aveva dato la mia metà ma che si era portato via tutto lasciandomi vuoto come una marionetta senza fili.